Attilio Regolo, Torino, Reale, 1757

 ATTO SECONDO
 
 SCENA PRIMA
 
  Logge a vista di Roma nel palazzo suburbano destinato agli ambasciadori cartaginesi.
 
 REGOLO e PUBLIO
 
 REGOLO
 Publio? Tu qui? Si tratta
 della gloria di Roma,
 dell'onor mio, del pubblico riposo
450e in Senato non sei?
 PUBLIO
                                        Raccolto ancora,
 signor, non è.
 REGOLO
                            Va', non tardar; sostieni
 fra i padri il voto mio. Mostrati degno
 dell'origine tua.
 PUBLIO
                                Come! E m'imponi
 che a fabbricar m'adopri
455io stesso il danno tuo?
 REGOLO
                                           Non è mio danno
 quel che giova alla patria.
 PUBLIO
                                                 Ah di te stesso
 signore abbi pietà.
 REGOLO
                                     Publio, tu stimi
 dunque un furore il mio? Credi ch'io solo
 fra ciò che vive odii me stesso? Oh quanto
460t'inganni! Al par d'ogn'altro
 bramo il mio ben, fuggo il mio mal. Ma questo
 trovo sol nella colpa e quello io trovo
 nella sola virtù. Colpa sarebbe
 della patria col danno
465ricuperar la libertà smarrita;
 onde è mio mal la libertà, la vita.
 Virtù col proprio sangue
 è della patria assicurar la sorte;
 ond'è mio ben la servitù, la morte.
 PUBLIO
470Pur la patria non è...
 REGOLO
                                        La patria è un tutto
 di cui siam parti. Al cittadino è fallo
 considerar sé stesso
 separato da lei. L'utile o il danno,
 ch'ei conoscer dee solo, è ciò che giova
475o nuoce alla sua patria a cui di tutto
 è debitor. Quando i sudori e il sangue
 sparge per lei, nulla del proprio ei dona;
 rende sol ciò che n'ebbe. Essa il produsse,
 l'educò, lo nudrì; con le sue leggi
480dagl'insulti domestici il difende,
 dagli esterni con l'armi. Ella gli presta
 nome, grado ed onor; ne premia il merto;
 ne vendica le offese; e madre amante
 a fabbricar s'affanna
485la sua felicità, per quanto lice
 al destin de' mortali esser felice.
 Han tanti doni, è vero,
 il peso lor. Chi ne ricusa il peso
 rinunci al benefizio; a far si vada
490d'inospite foreste
 mendico abitatore; e là di poche
 misere ghiande e d'un covil contento
 viva libero e solo a suo talento.
 PUBLIO
 Adoro i detti tuoi. L'alma convinci
495ma il cor non persuadi. Ad ubbidirti
 la natura repugna. Alfin son figlio,
 non lo posso obbliar.
 REGOLO
                                        Scusa infelice
 per chi nacque romano. Erano padri
 Bruto, Manlio, Virginio...
 PUBLIO
                                                È ver; ma questa
500troppo eroica costanza
 sol fra' padri restò. Figlio non vanta
 Roma finor che a proccurar giungesse
 del genitor lo scempio.
 REGOLO
 Dunque aspira all'onor del primo esempio.
505Va'.
 PUBLIO
           Deh...
 REGOLO
                         Non più. Della mia sorte attendo
 la notizia da te.
 PUBLIO
                               Troppo pretendi,
 troppo, o signor.
 REGOLO
                                 Mi vuoi straniero o padre?
 Se stranier, non posporre
 l'util di Roma al mio; se padre, il cenno
510rispetta e parti.
 PUBLIO
                                Ah se mirar potessi
 i moti del cor mio, rigido meno
 forse con me saresti.
 REGOLO
                                        Or dal tuo core
 prove io vo' di costanza e non d'amore.
 PUBLIO
 
    Ah se provar mi vuoi,
515chiedimi, o padre, il sangue;
 e tutto a' piedi tuoi,
 padre, lo verserò.
 
    Ma che un tuo figlio istesso
 debba volerti oppresso?
520Gran genitor perdona;
 tanta virtù non ho. (Parte)
 
 SCENA II
 
 REGOLO, poi MANLIO
 
 REGOLO
 Il gran punto s'appressa ed io pavento
 che vacillino i padri. Ah voi di Roma
 deità protettrici, a lor più degni
525sensi inspirate.
 MANLIO
                               A custodir l'ingresso
 rimangano i littori; e alcun non osi
 qui penetrar.
 REGOLO
                            (Manlio! A che viene?)
 MANLIO
                                                                        Ah lascia
 che al sen ti stringa, invitto eroe.
 REGOLO
                                                              Che tenti!
 Un console...
 MANLIO
                          Io nol sono,
530Regolo, adesso. Un uom son io che adora
 la tua virtù, la tua costanza, un grande
 emulo tuo che a dichiarar si viene
 vinto da te, che confessando ingiusto
 l'avverso genio antico,
535chiede l'onor di diventarti amico.
 REGOLO
 Dell'alme generose
 solito stil. Più le abbattute piante
 non urta il vento o le solleva. Io deggio
 così nobile acquisto
540alla mia servitù.
 MANLIO
                                 Sì, questa appieno
 qual tu sei mi scoperse; e mai sì grande,
 com'or fra' ceppi, io non ti vidi. A Roma
 vincitor de' nemici
 spesso tornasti; or vincitor ritorni
545di te, della fortuna. I lauri tuoi
 mossero invidia in me; le tue catene
 destan rispetto. Allora
 un eroe, lo confesso,
 Regolo mi parea, ma un nume adesso.
 REGOLO
550Basta, basta, signor. La più severa
 misurata virtù tentan le lodi
 in un labbro sì degno. Io ti son grato
 che d'illustrar con l'amor tuo ti piaccia
 gli ultimi giorni miei.
 MANLIO
                                           Gli ultimi giorni?
555Conservarti io pretendo
 lungamente alla patria; e affinché sia
 in tuo favor l'offerto cambio ammesso,
 tutto in uso porrò.
 REGOLO
                                    Così cominci, (Turbandosi)
 Manlio, ad essermi amico? E che faresti,
560se ancor m'odiassi? In questa guisa il frutto
 del mio rossor tu mi defraudi. A Roma
 io non venni a mostrar le mie catene
 per destarla a pietà; venni a salvarla
 dal rischio d'un'offerta
565che accettar non si dee. Se non puoi darmi
 altri pegni d'amor, torna ad odiarmi.
 MANLIO
 Ma il ricusato cambio
 produrria la tua morte.
 REGOLO
                                             E questo nome
 sì terribil risuona
570nell'orecchie di Manlio? Io non imparo
 oggi che son mortale. Altro il nemico
 non mi torrà che quel che tormi in breve
 dee la natura; e volontario dono
 sarà così quel che saria fra poco
575necessario tributo. Il mondo apprenda
 ch'io vissi sol per la mia patria; e quando
 viver più non potei,
 resi almen la mia morte utile a lei.
 MANLIO
 Oh detti! Oh sensi! Oh fortunato suolo
580che tai figli produci! E chi potrebbe
 non amarti, signor?
 REGOLO
                                       Se amar mi vuoi,
 amami da romano. Eccoti i patti
 della nostra amistà. Facciamo entrambi
 un sacrifizio a Roma, io della vita,
585tu dell'amico. È ben ragion che costi
 della patria il vantaggio
 qualche pena anche a te. Va'; ma prometti
 che de' consigli miei tu nel Senato
 ti farai difensore. A questa legge
590sola di Manlio io l'amicizia accetto.
 Che rispondi signor?
 MANLIO
                                         Sì; lo prometto. (Pensa prima di rispondere)
 REGOLO
 Or de' propizi numi
 in Manlio amico io riconosco un dono.
 MANLIO
 Ah perché fra que' ceppi anch'io non sono!
 REGOLO
595Non perdiamo i momenti. Ormai raccolti
 forse saranno i padri. Alla tua fede
 della patria il decoro,
 la mia pace abbandono e l'onor mio.
 MANLIO
 Addio, gloria del Tebro.
 REGOLO
                                              Amico, addio. (Abbracciandosi)
 MANLIO
 
600   Oh qual fiamma di gloria, d'onore
 scorrer sento per tutte le vene,
 alma grande, parlando con te!
 
    No; non vive sì timido core
 che in udirti con quelle catene
605non cambiasse la sorte d'un re. (Parte)
 
 SCENA III
 
 REGOLO e LICINIO
 
 REGOLO
 A respirar comincio; i miei disegni
 il fausto ciel seconda.
 LICINIO
                                         Alfin ritorno (Molto lieto)
 con più contento a rivederti.
 REGOLO
                                                      E donde
 tanta gioia, o Licinio?
 LICINIO
                                          Ho il cor ripieno
610di felici speranze. Infin ad ora
 per te sudai.
 REGOLO
                          Per me!
 LICINIO
                                           Sì. Mi credesti
 forse ingrato così ch'io mi scordassi
 gli obblighi miei nel maggior uopo? Ah tutto
 mi rammento, signor. Tu sol mi fosti
615duce, maestro e padre. I primi passi
 mossi, te condottiero,
 per le strade d'onor; tu mi rendesti...
 REGOLO
 Alfine in mio favor di', che facesti? (Impaziente)
 LICINIO
 Difesi la tua vita
620e la tua libertà.
 REGOLO
                               Come? (Turbato)
 LICINIO
                                               All'ingresso
 del tempio, ove il Senato or si raccoglie,
 attesi i padri; e ad uno ad un gli trassi
 nel desio di salvarti.
 REGOLO
                                        (Oh dei, che sento!)
 E tu...
 LICINIO
               Solo io non fui. Non si defraudi
625la lode al merto. Io feci assai ma fece
 Attilia più di me.
 REGOLO
                                   Chi?
 LICINIO
                                               Attilia. In Roma
 figlia non v'è d'un genitor più amante.
 Come parlò! Che disse!
 Quanti affetti destò! Come compose
630il dolor col decoro! In quanti modi
 rimproveri mischiò, preghiere e lodi!
 REGOLO
 E i padri?
 LICINIO
                      E chi resiste
 agli assalti d'Attilia? Eccola; osserva
 come ride in quel volto
635la novella speranza.
 
 SCENA IV
 
 ATTILIA e detti
 
 ATTILIA
                                      Amato padre,
 pure una volta...
 REGOLO
                                 E ardisci (Serio e torbido)
 ancor venirmi innanzi? Ah non contai
 te fin ad or fra' miei nemici.
 ATTILIA
                                                      Io padre,
 io tua nemica!
 REGOLO
                              E tal non è chi folle (Come sopra)
640s'oppone a' miei consigli?
 ATTILIA
                                                  Ah di giovarti
 dunque il desio d'inimicizia è prova?
 REGOLO
 Che sai tu quel che nuoce o quel che giova? (Con isdegno)
 Delle pubbliche cure
 chi a parte ti chiamò? Della mia sorte
645chi ti fe' protettrice? Onde...
 LICINIO
                                                      Ah signore,
 troppo...
 REGOLO
                   Parla Licinio? Assai tacendo (Come sopra)
 meglio si difendea; pareva almeno
 pentimento il silenzio. Eterni dei!
 Una figlia!... Un roman!
 ATTILIA
                                              Perché son figlia...
 LICINIO
650Perché roman son io, credei che oppormi
 al tuo fato inumano...
 REGOLO
 
    Taci; non è romano (A Licinio)
 chi una viltà consiglia.
 Taci; non è mia figlia (Ad Attilia)
655chi più virtù non ha.
 
    Or sì de' lacci il peso
 per vostra colpa io sento;
 or sì la mia rammento
 perduta libertà. (Parte)
 
 SCENA V
 
 ATTILIA e LICINIO
 
 ATTILIA
660Ma di'; credi, o Licinio,
 che mai di me nascesse
 più sfortunata donna! Amare un padre,
 affannarsi a suo pro, mostrar per lui
 di tenera pietade il cor trafitto
665saria merito ad altri; è a me delitto.
 LICINIO
 No; consolati, Attilia, e non pentirti
 dell'opra pietosa. Altro richiede
 il dover nostro ed altro
 di Regolo il dover. Se gloria è a lui
670della vita il disprezzo, a noi sarebbe
 empietà non salvarlo. Alfin vedrai
 che grato ei ci sarà. Non ti spaventi
 lo sdegno suo; spesso l'infermo accusa
 di crudel, d'inumana
675quella medica man che lo risana.
 ATTILIA
 Que' rimproveri acerbi
 mi trafiggono il cor; non ho costanza
 per soffrir l'ire sue.
 LICINIO
                                      Ma di', vorresti
 pria d'un tal genitor vederti priva?
 ATTILIA
680Ah questo no; mi sia sdegnato e viva.
 LICINIO
 Vivrà; cessi quel pianto.
 Tornatevi di nuovo,
 begli occhi, a serenar. Se veggo, oh dio!
 mestizia in voi, perdo coraggio anch'io.
 
685   Da voi, cari lumi,
 dipende il mio stato;
 voi siete i miei numi,
 voi siete il mio fato;
 a vostro talento
690mi sento cangiar.
 
    Ardir m'inspirate,
 se lieti splendete;
 se torbidi siete,
 mi fate tremar. (Parte)
 
 SCENA VI
 
 ATTILIA sola
 
 ATTILIA
695Ah che purtroppo è ver! Non han misura
 della cieca fortuna
 i favori e gli sdegni. O de' suoi doni
 è prodiga all'eccesso
 o affligge un cor fin che nol vegga oppresso.
700Or l'infelice oggetto
 son io dell'ire sue. Mi veggo intorno
 di nembi il ciel ripieno;
 e chi sa quanti strali avranno in seno!
 
    Se più fulmini vi sono,
705ecco il petto, avversi dei.
 Me ferite, io vi perdono;
 ma salvate il genitor.
 
    Un'immagine di voi
 in quell'alma rispettate;
710un esempio a noi lasciate
 di costanza e di valor. (Parte)
 
 SCENA VII
 
 Galleria nel palazzo medesimo.
 
 REGOLO solo
 
 REGOLO
 Tu palpiti, o mio cor! Qual nuovo è questo
 moto incognito a te? Sfidasti ardito
 le tempeste del mar, l'ire di Marte,
715d'Africa i mostri orrendi
 ed or tremando il tuo destino attendi?
 Ah n'hai ragion. Mai non si vide ancora
 in periglio sì grande
 la gloria mia. Ma questa gloria, oh dei!
720non è dell'alme nostre
 un affetto tiranno? Al par d'ogn'altro
 domar non si dovrebbe? Ah no. De' vili
 questo è il linguaggio. Inutilmente nacque
 chi sol vive a sé stesso; e sol da questo
725nobile affetto ad obbliar s'impara
 sé per altrui. Quanto ha di ben la terra
 alla gloria si dee. Vendica questa
 l'umanità del vergognoso stato
 in cui saria senza il desio d'onore;
730toglie il senso al dolore,
 lo spavento a' perigli,
 alla morte il terror; dilata i regni,
 le città custodisce; alletta, aduna
 seguaci alla virtù; cangia in soavi
735i feroci costumi
 e rende l'uomo imitator de' numi.
 Per questa... Ahimè! Publio ritorna e parmi
 che timido s'avanzi. E ben che rechi?
 Ha deciso il Senato?
740Qual è la sorte mia?
 
 SCENA VIII
 
 PUBLIO e detto
 
 PUBLIO
                                       Signor... (Che pena
 per un figlio è mai questa!)
 REGOLO
                                                     E taci?
 PUBLIO
                                                                    Oh dei!
 Esser muto vorrei.
 REGOLO
                                     Parla.
 PUBLIO
                                                  Ogni offerta
 il Senato ricusa.
 REGOLO
                                Ah dunque ha vinto
 il fortunato alfin genio romano!
745Grazie agli dei, non ho vissuto invano.
 Amilcare si cerchi. Altro non resta
 che far su queste arene;
 la grand'opra compii, partir conviene.
 PUBLIO
 Padre infelice!
 REGOLO
                              Ed infelice appelli
750chi poté, fin che visse,
 alla patria giovar?
 PUBLIO
                                    La patria adoro,
 piango i tuoi lacci.
 REGOLO
                                    È servitù la vita;
 ciascuno ha i lacci suoi. Chi pianger vuole
 pianger, Publio, dovria
755la sorte di chi nasce e non la mia.
 PUBLIO
 Di quei barbari, o padre,
 l'empio furor ti priverà di vita.
 REGOLO
 E la mia servitù sarà finita.
 Addio. Non mi seguir.
 PUBLIO
                                           Da me ricusi
760gli ultimi ancor pietosi uffizi?
 REGOLO
                                                         Io voglio
 altro da te. Mentre a partir m'affretto,
 a trattener rimanti
 la sconsolata Attilia. Il suo dolore
 funesterebbe il mio trionfo. Assai
765tenera fu per me. Se forse eccede,
 compatiscila, o Publio. Alfin da lei
 una viril costanza
 pretender non si può. Tu la consiglia;
 d'inspirarle proccura
770con l'esempio fortezza;
 la reggi, la consola e seco adempi
 ogni uffizio di padre. A te la figlia,
 te confido a te stesso; e spero... Ah veggo
 che indebolir ti vuoi. Maggior costanza
775in te credei. L'avrò creduto invano?
 Publio, ah no; sei mio figlio e sei romano.
 
    Non tradir la bella speme
 che di te donasti a noi;
 sul cammin de' grandi eroi
780incomincia a comparir.
 
    Fa' ch'io lasci un degno erede
 degli affetti del mio core,
 che di te senza rossore
 io mi possa sovvenir. (Parte)
 
 SCENA IX
 
 PUBLIO, poi ATTILIA e BARCE; indi LICINIO ed AMILCARE, l’uno dopo l’altro e da diverse parti
 
 PUBLIO
785Ah sì, Publio, coraggio. Il passo è forte
 ma vincerti convien. Lo chiede il sangue
 che hai nelle vene. Il grand'esempio il chiede
 che sugli occhi ti sta. Cedesti a' primi
 impeti di natura; or meglio eleggi;
790il padre imita e l'error tuo correggi.
 ATTILIA
 Ed è vero, o german? (Con ispavento)
 BARCE
                                           Publio, ed è vero? (Con ispavento)
 PUBLIO
 Sì. Decise il Senato;
 Regolo partirà.
 ATTILIA
                              Come!
 BARCE
                                             Che dici?
 ATTILIA
 Dunque ognun mi tradì?
 BARCE
                                                Dunque...
 PUBLIO
                                                                     Or non giova...
 BARCE
795Amilcare, pietà. (Vedendolo da lontano)
 ATTILIA
                                 Licinio, aiuto. (Come sopra)
 AMILCARE
 Più speranza non v'è. (A Barce)
 LICINIO
                                           Tutto è perduto. (Ad Attilia)
 ATTILIA
 Dov'è Regolo? Io voglio
 almen seco partir.
 PUBLIO
                                    Ferma; l'eccesso
 del tuo dolor l'offenderebbe.
 ATTILIA
                                                      E speri
800impedirmi così?
 PUBLIO
                                  Spero che Attilia
 torni alfine in sé stessa e si rammenti
 che a lei non è permesso...
 ATTILIA
 Sol che son figlia io mi rammento adesso.
 Lasciami.
 PUBLIO
                     Non sperarlo.
 ATTILIA
                                                Ah parte intanto
805il genitor.
 BARCE
                     Non dubitar ch'ei parta,
 finché Amilcare è qui.
 ATTILIA
                                           Chi mi consiglia?
 Chi mi soccorre? Amilcare?
 AMILCARE
                                                     Io mi perdo
 fra l'ira e lo stupor.
 ATTILIA
                                      Licinio?
 LICINIO
                                                        Ancora
 dal colpo inaspettato
810respirar non poss'io.
 ATTILIA
                                        Publio?
 PUBLIO
                                                         Ah germana,
 più valor, più costanza. Il fato avverso
 come si soffra il genitor ci addita.
 Non è degno di lui chi non l'imita.
 ATTILIA
 E tu parli così! Tu che dovresti
815i miei trasporti accompagnar gemendo!
 Io non t'intendo, o Publio.
 AMILCARE
                                                  Ed io l'intendo.
 Barce è la fiamma sua. Barce non parte,
 se Regolo non resta. Ecco la vera
 cagion del suo coraggio.
 PUBLIO
820(Questo pensar di me! Stelle, che oltraggio!)
 AMILCARE
 Forse affinché il Senato
 non accettasse il cambio, ei pose in opra
 tutta l'arte e l'ingegno.
 PUBLIO
 Il dubbio inver d'un africano è degno.
 AMILCARE
825E pur...
 PUBLIO
                 Taci; e m'ascolta.
 Sai che l'arbitro io sono
 della sorte di Barce?
 AMILCARE
                                        Il so; l'ottenne
 già dal Senato in dono
 la madre tua; questa cedendo al fato,
830signor di lei tu rimanesti.
 PUBLIO
                                                 Or odi
 qual uso io fo del mio dominio. Amai
 Barce più della vita
 ma non quanto l'onor. So che un tuo pari
 creder nol può; ma toglierò ben io
835di sì vili sospetti
 ogni pretesto alla calunnia altrui.
 Barce, libera sei; parti con lui.
 BARCE
 Numi! Ed è ver?
 AMILCARE
                                  D'una virtù sì rara...
 PUBLIO
 Come s'ama fra noi, barbaro, impara. (Parte)
 
 SCENA X
 
 LICINIO, ATTILIA, BARCE ed AMILCARE
 
 ATTILIA
840Vedi il crudel come mi lascia? (A Licinio che non l’ode)
 BARCE
                                                          Udisti
 come Publio parlò? (Ad Amilcare come sopra)
 ATTILIA
                                       Tu non rispondi! (A Licinio)
 BARCE
 Tu non m'odi, idol mio! (Ad Amilcare)
 AMILCARE
 Addio! Barce; m'attendi. (Risoluto partendo)
 LICINIO
                                                 Attilia, addio. (Come sopra)
 ATTILIA, BARCE A DUE
 Dove?
 LICINIO
                A salvarti il padre. (Ad Attilia)
 AMILCARE
845Regolo a conservar. (A Barce)
 ATTILIA
                                       Ma per qual via? (A Licinio)
 BARCE
 Ma come? (Ad Amilcare)
 LICINIO
                       a' mali estremi (Ad Attilia)
 diasi estremo rimedio.
 AMILCARE
                                             Abbia rivali (A Barce)
 nella virtù questo romano orgoglio.
 ATTILIA
 Esser teco vogl'io. (A Licinio)
 BARCE
                                    Seguirti io voglio. (Ad Amilcare)
 LICINIO
850No; per te tremerei. (Ad Attilia)
 AMILCARE
 No; rimaner tu dei. (A Barce)
 BARCE
                                        Né vuoi spiegarti? (Ad Amilcare)
 ATTILIA
 Né vuoi ch'io sappia almen... (A Licinio)
 LICINIO
                                                        Tutto fra poco (Ad Attilia)
 saprai.
 AMILCARE
                Fidati a me. (A Barce)
 LICINIO
                                         Regolo in Roma
 si trattenga o si mora. (Parte)
 AMILCARE
855Faccia pompa d'eroi l'Africa ancora. (S’incammina e poi si
 rivolge)
 
    Se minore è in noi l'orgoglio,
 la virtù non è minore;
 né per noi la via d'onore
 è un incognito sentier.
 
860   Lungi ancor dal Campidoglio
 vi son alme a queste uguali;
 pur del resto de' mortali
 han gli dei qualche pensier. (Parte)
 
 SCENA XI
 
 ATTILIA e BARCE
 
 ATTILIA
 Barce!
 BARCE
                Attilia!
 ATTILIA
                                Che dici?
 BARCE
865Che possiamo sperar?
 ATTILIA
                                           Non so. Tumulti
 certo a destar corre Licinio; e questi
 esser ponno funesti
 alla patria ed a lui, senza che il padre
 perciò si salvi.
 BARCE
                             Amilcare sorpreso
870dal grand'atto di Publio, e punto insieme
 da' rimproveri suoi, men generoso
 esser non vuol di lui. Chi sa che tenta
 e a qual rischio s'espone?
 ATTILIA
                                                 Il mio Licinio
 deh secondate, o dei!
 BARCE
                                         Lo sposo mio,
875numi, assistete!
 ATTILIA
                                Io non ho fibra in seno
 che non mi tremi.
 BARCE
                                    Attilia,
 non dobbiamo avvilirci. Alfin più chiaro
 è adesso il ciel di quel che fu; si vede
 pur di speranza un raggio.
 ATTILIA
880Ah Barce, è ver; ma non mi dà coraggio.
 
    Non è la mia speranza
 luce di ciel sereno;
 di torbido baleno
 è languido splendor.
 
885   Splendor che in lontananza
 nel comparir si cela,
 che il rischio, oh dio! mi svela
 ma non lo fa minor. (Parte)
 
 SCENA XII
 
 BARCE sola
 
 BARCE
 Rassicurar proccuro
890l'alma d'Attilia oppressa;
 ardir vo consigliando e tremo io stessa.
 Ebbi assai più coraggio
 quando meno sperai. La tema incerta
 solo allor m'affliggea d'un mal futuro;
895or di perder pavento un ben sicuro.
 
    S'espone a perdersi
 nel mare infido
 chi l'onde instabili
 solcando va.
 
900   Ma quel sommergersi
 vicino al lido
 è troppo barbara
 fatalità.
 
 Fine dell’atto secondo